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QdB – Questioni di bioetica 1/2022

Fulvio di Blasi e la morte del Phronimos. L’etica delle virtù e la scienza giuridica dei testimoni come criterio valutativo e prudenziale nella gestione dell’emergenza pandemica.

Una recensione critica.

di Mauro Mendula

Nicolás Gómez Dávila indicava, tra le virtù dell’uomo intelligente, quella di riuscire a mantenere il proprio intelletto ad una temperatura indipendente da quella dell’ambiente in cui si fosse trovato a vivere e operare: in tale disposizione, saper così abitare il proprio tempo – sporgendo costantemente da esso – ne avrebbe rappresentato il segno distintivo.

Volgendo lo sguardo alla temperie pandemica che ci ha travolti, appare con drammatica evidenza quanto – in questi ultimi due anni – l’intelligenza individuale e collettiva sia stata messa a dura prova, ed abbia altresì portato al grippaggio per surriscaldamento un numero considerevole di “intellettuali” che  – in tale tempesta perfetta – avrebbero invece potuto e dovuto dar prova di maggiore lucidità e freddezza, unita ad una capacità di intus-legere gli eventi in profondità (sovrastandoli poi in altezza), per conquistare infine quella libertà di sguardo e azione che sola può nascere da una coscienza allenata al discernimento.

Sulla gestione emergenziale della pandemia si è invece  creata una tensione dialettica che ha portato ad ipostatizzare e sacralizzare le soluzioni di politica sanitaria (e non solo) poste contingentemente in atto da diversi governi, per ammantarle di un redivivo culto comtiano e neopositivista della Scienza, con al seguito sacerdoti e sacrestie di “comitati tecnici” ai quali è stata automaticamente attribuita un’aura di venerabile affidabilità (per non dire infallibilità, de-iure), non priva di proprietà taumaturgiche e moralizzanti. Chiunque – seppur titolato – abbia osato portare elementi anche solo circostanziati di dubbio nel già blindato dibattito pubblico, si è così visto a piè pari catapultato nel tritacarne, accusato del complottismo più bieco, ed infine gettato fuori dal consesso di coloro che potremmo ben definire – prendendo in prestito le parole di  Andrea Zhok – i  nuovi bigotti del bene e buoni per statuto: gli unici che detengono l’auto proclamata dignità di decidere, senza contraddittorio, del bene comune.  

Tra i rari studiosi che hanno invece saputo resistere ai marosi del “pandemicamente corretto” va certamente annoverato Fulvio di Blasi.  Avvocato, eticista, filosofo del diritto con una brillante carriera accademica in Italia e negli States, membro dell’ American Philosophical Association, con all’attivo più di 200 pubblicazioni, non poteva non concentrare il suo focus sulle spinose questioni epistemologiche, etiche e giuridiche che le strategie anti-covid hanno prepotentemente sollevato in questi ultimi due anni. Sono così giunti alle stampe per i tipi dell’editore Phronimos i primi due volumi di una collana di ampio respiro, dedicata all’epistemologia della scelta etica (pubblica e privata) in tempi di pandemia: Il vaccino come atto d’amore?  e La morte del  Phronimos: fede e verità sui vaccini anti-covid. Quest’ultimo – che ci accingiamo a recensire in modo più dettagliato – edito anche in lingua inglese.

Una breve nota stilistica, prima di approcciarci alla struttura e al contenuto del libro: la scrittura dell’autore si presenta sobria ed estremamente fluida, seppur nell’incalzare delle argomentazioni, sempre stringenti ed argute; nessuno spazio è lasciato a quella spesso ostentata ed ampollosa verbosità, tipica di un certo stile che molti amano definire continentale: The Death of Phronimos si presta dunque ad essere apprezzato anche da un’ampia platea di lettori anglosassoni di area analitica.

Ma cosa può aver da insegnare un filosofo su questioni altamente specialistiche e tecniche come parrebbero essere – ad esempio – l’immissione in commercio e la somministrazione dei nuovi vaccini anti-covid-19? Oppure sull’istituzione di un pass vaccinale o l’applicazione di specifiche politiche di sanità pubblica che impattano su altri diritti fondamentali della persona? Con quali competenze egli può parlare ed in quale prospettiva? Tecnicamente più di quel che si può credere prima facie. Riferendoci infatti alla distinzione classica tra oggetto materiale ed oggetto formale di una scienza, è possibile constatare come,  seppur esso si presenta unitario nella sua denotazione, diverse possono essere le connotazioni o i punti di fuga prospettici attraverso i quali poterlo analizzare: la stessa materia più essere per questo  indagata da più scienze; ciò che cambia è l’aspetto speciale o – appunto – l’oggetto formale alla luce del quale essa viene esaminata, decisivo poi per la demarcazione di una scienza da un’altra. Va da sé – ad esempio  – che l’utilizzo o l’imposizione di un vaccino apra particolari questioni etiche e giuridiche che interpellano i decisori pubblici e privati, questioni che devono essere focalizzate con specifiche competenze scientifiche, che un eticista ed un filosofo del diritto hanno per proprio statuto formativo e che mancheranno totalmente o in parte ad altri studiosi. Questioni che in verità sono state troppo spesso lasciate sullo sfondo oppure – ancor più grave – affrontate in modo banale e dilettantistico da specialisti in ben altri campi (epidemiologi, virologi, biologi, statistici et similia) che in questi due anni si son sentiti largamente in diritto di pontificare con piglio moralistico su ambiti verso i quali si trovano invero palesemente a digiuno, privi dei benché minimi strumenti concettuali, ma con la pretesa di poterne avere la medesima dimestichezza con la quale si isola un virus in laboratorio.

Nel primo volume, Il Vaccino come Atto d’amore?, Di Blasi affronta in modo rigoroso il problema della scelta morale in quanto essa abbia potenzialmente ad oggetto il vaccino contro il covid, adottando la nozione classica per la quale il diritto è quella parte dell’etica che riguarda la bontà delle azioni necessarie alla convivenza civile. Dopo una breve introduzione sulla struttura e i criteri di valutazione dell’atto morale, si analizzano questi prodotti secondo i concetti fondamentali dell’oggetto, delle circostanze e del fine, evidenziandone tutte le possibili aree di criticità, dubbi, certezze/incertezze rispetto ad ognuno dei suddetti  e rispetto alla valutazione etica complessiva della scelta. Lo studioso parte dalle fonti primarie, dai documenti delle agenzie autorizzative come FDA ed EMA, studiate ed analizzate in originale. L’epistemologia dei vaccini e la scienza che li caratterizza vengono spiegate nel contesto delle specifiche autorizzazioni giuridiche poste in atto (EUA) e delle questioni da esse derivanti. Il testo risulta a tal proposito un’ottima fonte per chi voglia ripercorrere i tratti salienti della storia di questi prodotti e comprenderne appieno il significato politico e istituzionale. Di grande interesse sono i capitoli che affrontano il caso AstraZeneca, l’approvazione del vaccino Pfizer, il cambio di definizione di “vaccino” o il senso dell’immunità (penale) garantita alle case farmaceutiche ed agli operatori sanitari). Per alcune questioni più squisitamente tecnico/scientifiche l’autore si è avvalso della consulenza di scienziati del calibro di Robert W. Malone e Peter Doshi.

Ma l’approccio filosofico si pone eminentemente anche (e soprattutto) come riscatto dei propri presupposti.  Nel volume La morte del Phronimos Di Blasi fa così un ulteriore passo fondativo, andando alla radice epistemologica del processo che sottende al discernimento sulla credibilità stessa delle fonti:

“Da chi dobbiamo apprendere le verità sui vaccini e la pandemia? In che modo esattamente rispetto ai vari soggetti disponibili nel mercato mediatico e politico? Che valore dobbiamo dare alle affermazioni delle varie persone e istituzioni che ce ne parlano? È essenziale imparare a rispondere in maniera sufficiente e ragionevole a queste domande perché dalle informazioni che ci vengono trasmesse dipendono, non semplici opinioni su chi vincerà un campionato o su quale sarà la prossima moda stagionale o su quali sono i posti più gettonati per le vacanze, ma decisioni cruciali che ciascuno di noi deve prendere con riguardo alla salute propria e dei propri cari, al bene comune e ai diritti e le libertà fondamentali della società in cui viviamo” (p. 13).

L’intento dell’autore non è tanto quello di ricercare le verità in sé sui vaccini anti covid, ma di acquisire ed applicare dei validi criteri estimativi sulla veridicità ed affidabilità di chi se ne fa portavoce,  dei loro testimoni, di “coloro che ce li raccontano” e sui quali prestiamo dunque – in modo soventemente irriflesso e ingenuo – un certo affidamento, per le nostre scelte. Pochissimi sono gli ambiti in cui ciascuno di noi può infatti affermare qualcosa in modo apodittico e scientifico-dimostrativo, soprattutto negli odierni tempi di iper specializzazione, dove l’estrema frammentazione della ricerca sui medesimi ambiti rende spesso difficile per gli stessi scienziati dominare – con pari competenza – aspetti eterogenei della loro materia. La gran parte delle nostre cognizioni si basa su una sorta di catena della fiducia, attraverso la quale siamo – gioco forza  – obbligati ad accettare per buono ciò che in vari ambiti ci viene testimoniato riguardo ai più svariati argomenti, da testimoni che – di volta in volta – riteniamo possano rispettare un ragionevole criterio di attendibilità. E’ una pacifica strategia di senso comune, per la quale ci affidiamo ad un ingegnere per dei calcoli strutturali, all’architetto, al notaio o al medico. Come d’altronde siamo portati a non dubitare del pilota e di tutta la catena di controllo che vi sta dietro, quando ci accingiamo ad imbarcare su un aereo. Il tema di fondo del volume è dunque  il modo attraverso il quale noi acquisiamo le verità e le certezze che guidano le nostre scelte prudenziali, nel caso specifico – ovviamente – con un particolare focus sui vaccini e la pandemia, nell’orizzonte di una conoscenza che potremmo ben definire appunto “fiduciaria” riferita ad un settore estremamente complesso come quello della salute pubblica.

La scienza giuridica del testimoni

Ed è proprio la scienza giuridica dei testimoni nel processo – secondo Di Blasi – a fornirci rigorosi strumenti valutativi ed estimativi per guidarci con estrema ragionevolezza e giuris-prudenza nelle decisioni che riguardano ambiti in cui la nostra conoscenza dei fattori rilevanti dipende da altre persone o istituzioni.

Attraverso dunque il parallelismo classico tra coscienza e tribunale, applicando la scienza giuridica sulla valutazione dei testi in un processo, è possibile così porre in luce l’attendibilità sia tecnica che etica dei  vari soggetti pubblici e istituzionali che – a vario titolo – ci parlano ad esempio dei vaccini o delle scelte di politica sanitaria. Soggetti come le case farmaceutiche, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), la Food and Drug Administration americana (FDA), la European Medicines Agency (EMA), l’Istituto Superiore di Sanità (ISS), il Comitato Tecnico Consultivo (CTS), il giornalismo mainstream, la politica e perfino la “scienza” sono tutti potenziali testimoni che il giudice del foro (sia esso interno o pubblico) devono ascoltare per valutare se ed in che misura ammettere nell’ipotetico processo oppure no. Se la sentenza è il giudizio della nostra coscienza, l’intento è quello  di vagliare in primis l’attendibilità dei testi, a prescindere dall’eventuale colpevolezza dell’imputato.

Grazie ad  una prassi consolidata, Il testimone viene infatti valutato secondo diversi parametri che comprendono ad esempio la ragionevolezza della verità proposta, ragionevolezza del teste rispetto alla sua moralità, i probabili indici di non attendibilità, i conflitti d’interesse, la scarsa conoscenza dei fatti e dei dettagli, eventuali contraddizioni, il distacco e l’imparzialità, i tentennamenti e vuoti di memoria, l’atteggiamento lacunoso o selettivo, i silenzi ingiustificati, le ripetizione meccanica, la scarsa naturalezza, la propensione corruttiva ecc….

“Come sanno bene i giuristi, l’aspetto essenziale che decide dell’attendibilità di un teste è la conoscenza diretta dei fatti sui cui è chiamato a testimoniare. La testimonianza cosiddetta “de relato” o “per sentito dire” non è ammissibile per un motivo epistemologico prima che giuridico. Se un teste dice di sapere qualcosa perché gliel’ha detta qualcun altro, o perché l’ha sentita dire da qualcun altro, allora il vero testimone di quella verità è quell’altra persona e sulla base di quell’altra persona andrà valutata. Se un giornalista dice che un vaccino è sicuro perché così dicono gli esperti, allora i testi da ascoltare sulla sicurezza del vaccino saranno quegli esperti. Rispetto a quella verità, il giornalista non è una fonte attendibile. Se un teste ha sentito dire al colpevole che è colpevole, la sua testimonianza è ammissibile, ma la verità della colpevolezza dipende epistemologicamente da quanto ha detto il colpevole (dalla sua confessione stragiudiziale) non da quanto ha detto il teste (che non ha visto commettere il reato ma ha solo ascoltato ciò che ha detto chi l’ha commesso). 

Se l’autore di un manuale di fisica, seppure rinomato, ci dice qualcosa del modo in cui è stata confermata al CERN l’esistenza del Bosone di Higgs (la famosa particella di Dio, che per Dio probabilmente non è che una particella), e questo qualcosa è diverso da quanto ce ne dice chi ha condotto l’esperimento al CERN, dovremo per forza dare più valore al secondo teste perché il primo non ha conoscenza diretta dell’esperimento. Allo stesso modo, se un esperto cita a sostegno di un proprio giudizio su un vaccino dati derivanti da un modello matematico che lui, però, non ha elaborato o non sarebbe in grado di elaborare, il teste di riferimento diventa, almeno in parte, l’esperto del modello matematico. È fondamentale che, prima di fidarci del testimone di una data verità, ci interroghiamo, non solo sulla ragionevolezza in sé di quella verità, ma anche sull’attendibilità del testimone rispetto ad essa. Questa attendibilità si misura sulla conoscenza diretta che il testimone ha di quella verità. Rispetto a verità di natura tecnica, scientifica o specialistica, questa conoscenza diretta si misura sulla base della qualifica professionale del testimone (conoscenza diretta della materia) e del suo coinvolgimento nella scoperta o elaborazione della verità in questione (conoscenza diretta della ricerca specifica, dell’esperimento, del calcolo, ecc.). Più una verità è la risultante di varie testimonianze specialistiche più è importante comprendere almeno i contributi essenziali di ciascun esperto alla formazione di quella verità, o le fasi essenziali del processo scientifico su cui misurare la credibilità o attendibilità dei singoli testimoni rilevanti. Facciamo l’esempio degli affetti avversi ai vaccini rilevati tramite farmacovigilanza passiva. In questo caso, bisogna considerare almeno: a) l’attendibilità del teste esperto che rileva i dati, b) l’attendibilità del teste esperto che li elabora statisticamente, e c) l’attendibilità del teste esperto che trae le conclusioni di natura medica o epidemiologica. Qui ci sono almeno tre testimonianze collegate l’una all’altra da considerare. Chi raccoglie i dati iniziali deve fidarsi di chi glieli dà, o del sistema che glieli fa acquisire, e testimoniarli de relato agli statistici. Chi li elabora statisticamente deve acquisire la prima testimonianza de relato e, sulla base di essa, elaborare i propri modelli matematici. Chi utilizza i modelli matematici per le proprie deduzioni mediche ed epidemiologiche sui vaccini deve fidarsi della testimonianza de relato iniziale e della successiva testimonianza statistica per offrire la propria testimonianza sulla pericolosità dei vaccini. Chi ascolta questi esperti finali deve decidere se e in che misura fidarsi di tutti questi testi coinvolti a catena. (pp. 34-35).

La conoscenza che abbiamo tutti noi dei vaccini anti covid (e sulla quale facciamo le nostre scelte (o veniamo “costretti” a farlo ndr), salvo pochissime eccezioni per gli esperti che ci lavorano dall’interno è una conoscenza di fede. Anche per quei pochi esperti, tuttavia, che si potrebbero considerare testimoni diretti dei fatti, le verità dei vaccini rimangono in parte verità di fede perché non c’è alcun esperto che possa avere da solo una conoscenza scientifica propria e diretta di tutti i fatti e gli aspetti rilevanti coinvolti. Di fatto, che ci piaccia o no, le verità sui vaccini che utilizziamo per le nostre scelte morali le possediamo perché crediamo a quello che altri ci dicono di essi. Dobbiamo quindi interrogarci sulla ragionevolezza di queste verità e sull’attendibilità dei testi, proprio come faremmo nelle vesti di un giudice in un processo. Ovviamente, in questo processo, sfilano come testimoni un’infinità di individui e istituzioni, ed è impossibile essere esaustivi. È inevitabile, però, che quello che ci dicono o pensano alcune persone sui vaccini divenga per noi una circostanza spesso determinante della nostra scelta. Dobbiamo pertanto cercare di identificare almeno i testimoni più importanti e provare a valutarne i criteri di affidabilità o inaffidabilità” (p. 49).

I testi al vaglio

Qui si apre ovviamente un enorme lavoro d’inchiesta che di Blasi ha realizzato su più livelli per ciascun soggetto portato in causa e vagliato secondo i succitati parametri di attendibilità/affidabilità. Sarebbe lungo e dispersivo riportare in questa sede il pregevole lavoro di analisi svolto, che parte dalla sperequazione tra studi  pre-autorizzazione e post-autorizzazione [Sotto il profilo della scienza dei testimoni o dell’epistemologia della conoscenza di fede, non vi è dubbio che le case farmaceutiche, in un processo ideale, non potrebbero testimoniare sulle verità dei vaccini, più o meno come un CEO non potrebbe testimoniare in favore della propria azienda. Gli studi della fase pre-autorizzazione possono assumere un certo livello di attendibilità nella misura in cui hanno coinvolto in qualche modo le agenzie governative e, soprattutto, nel confronto con gli studi della farmacovigilanza post-autorizzazione (p.53)], per non parlare della malconcia credibilità etica, della fedina penale di Big Pharma: “qui, un giudice che dovesse ammettere una casa farmaceutica come testimone in un processo sui farmaci, specialmente la Pfizer, si metterebbe le mani nei capelli. Le case farmaceutiche, infatti, sono uno dei settori industriali maggiormente segnato dagli scandali (…) il secondo settore industriale più odiato dagli americani. Si parla di 35,7 miliardi di dollari di risarcimento per frodi su sanità e farmaci in 24 anni. Come dire che l’industria farmaceutica mette in bilancio ogni anno per risarcimenti da frode più di 1,5 miliardi” (p. 54)

“Per valutare l’attendibilità etica generale di un teste è necessario prendere visione della sua fedina penale, o almeno, se troppo lunga, di alcune parti rilevanti e rivelatrici” (ibid.).

L’autore fa così una puntuale disamina di alcuni tra i più grossi scandali farmaceutici degli ultimi vent’anni, iniziando dal Vioxx, farmaco ritirato dal mercato nel 2004 dopo che per anni si erano riscontrati effetti negativi cardiovascolari (mai studiati o resi pubblici da Merck) in grado di provocare infarti ed ictus. Nel 2007 il colosso risarcì le vittime e le loro famiglie con 4,85 miliardi. Nel 2011 riconobbe poi la propria colpevolezza penale e pagò al Dipartimento di Giustizia americano una multa di $950 milioni. Più di 140.000 attacchi cardiaci e decine di migliaia di morti premature furono causate da questo farmaco e da un’omertosa gestione degli studi post autorizzazione. Nessuno finì in galera. Per questioni di spazio non possiamo seguire pedissequamente il libro nella cronistoria degli scandali riguardanti – tra gli altri –  la Johnson & Johnson, il suo coinvolgimento in quasi 20.500 cause federali per il talco, e in molte di più nei tribunali statali, le drammatiche sperimentazioni di Pfizer sui bambini nigeriani, il più grande accordo transattivo per frode riguardo a farmaci utilizzati off-label come il Brextra, lo scandalo Prempro, Chantix, il testosterone, la sperimentazione su neonati orfani ecc…

In sé, rispetto alla verità dei vaccini anti covid, le case produttive dei vaccini sarebbero i testi con la cognizione diretta più completa. Tuttavia, hanno un conflitto di interesse di proporzioni gigantesche ed una fedina penale drammatica macchiata precisamente di reati di frode relativi alle illegittime sperimentazioni, informazioni e pubblicità dei farmaci. (…) Qui non si tratta di complottismo ma di scienza dei testimoni e di epistemologia della conoscenza di fede” (p. 62).

Non va meglio per FDA ed EMA: su tali agenzie – in particolare la sorella maggiore  americana – s’invocano da anni riforme strutturali, nel merito delle quali il nostro autore propone interessanti spunti di lavoro, sia dal punto di vista giuridico che di policy etica.

“Rispetto agli studi pre-autorizzazione, (le agenzie regolatorie) sono tecnicamente testimoni de relato sui vaccini. Ad un ipotetico giudice, potrebbero dire solo ciò che, attraverso i documenti delle domande di autorizzazione al commercio, hanno appreso dalle case farmaceutiche. FDA ed EMA possono accorgersi facilmente di incongruenze o lacune nei documenti consegnati, ma difficilmente possono rilevare l’esistenza di frodi sul prodotto o sui numeri e risultati dei test ed esperimenti. Il rapporto tra le agenzie e le case farmaceutiche si svolge in gran parte in un clima fiduciario in cui le agenzie danno per buoni i documenti e i dati che vengono loro presentati.

Per motivi analoghi, le agenzie preposte non sono neppure testimoni della scienza, come un peer reviewer non è testimone degli esperimenti e studi che stanno dietro ad un articolo scientifico di cui si chiede la pubblicazione. Il peer reviewer è solo testimone della coerenza e congruenza di quello che c’è scritto nell’articolo (…). Emerge bene la stranezza o sbilanciamento della scienza dei farmaci perché essa, nella fase creativa pre-pubblicazione, avviene in un contesto di forte conflitto di interessi e, dopo la pubblicazione, nessun altro gruppo di ricerca potrà realmente verificarla per tanti motivi, tra cui i limiti imposti dal segreto industriale, la mancanza di accesso diretto ai dati e la mancanza di risorse sufficienti. Le case farmaceutiche tengono tendenzialmente segreti anche i dati sui test clinici.

Dunque, FDA ed EMA, rispetto alla scienza dei vaccini fino al momento dell’autorizzazione, sono solo testimoni de relato di un produttore in conflitto di interessi.

Ma di che cosa sono, invece, testimoni diretti e attendibili? Lo sono del diritto, e qui emerge la vera natura non scientifica ma giuridica di questi enti (…)”

Seguiamo ancora Di Blasi:

“Per conoscere il vaccino come strumento e come possibile oggetto di scelta, queste agenzie sono fonte primaria e autosufficiente. Esse sono i testimoni diretti delle ragioni e criteri giuridici delle loro stesse decisioni. Della scienza sono testimoni indiretti ma del diritto sono testimoni diretti (…) Rebus sic stantibus significa finché le cose rimangono così. Sotto questo profilo, le decisioni di FDA ed EMA sono più simili all’ordine cautelare di un giudice che alla legge di un parlamento.

L’autorizzazione prevede, per i produttori, ulteriori studi e sperimentazioni che le agenzie dovranno monitorare, e prevede un sistema di farmacovigilanza che le agenzie dovranno coordinare con tutti gli altri enti e agenzie rilevanti. In questa fase, si sviluppa anche un’interazione proficua con la scienza indipendente,e le agenzie dovranno prestarvi grande attenzione perché potrebbe essere essenziale agli aggiornamenti delle loro disposizioni sui vaccini. Questa fase post-autorizzazione, così ricca di attività e dati nuovi, fa sì che ai documenti normativi genetici delle agenzie se ne aggiungano costantemente altri che, ad esempio, richiedono alle case produttrici di fare o modificare certi studi, aggiungono o chiariscono controindicazioni ai vaccini, ne rinnovano o estendono l’ambito di applicazione, ecc.

Tutti questi documenti, sia nella parte sincronica iniziale, sia in quella diacronica in costante aggiornamento, costituiscono la base di partenza di qualsiasi studio serio sui vaccini”. (pp. 63-65)

Appare chiaro ad esempio come una EUA non possa giuridicamente saltare i tempi oggettivi di una sperimentazione scientifica, sostituirsi ad essa oppure pretendere che i pur ampi follow-up sviluppati sincronicamente possano dipanare ogni dubbio sugli eventuali effetti inaspettati nel medio-lungo periodo, semplicemente perché prevedibili solo diacronicamente. Troppi testimoni, virostar e referenti pubblici hanno negato – colpevolmente – questo aspetto; ma che i giochi siano ancora aperti lo ammettono per prime le case farmaceutiche, tanto che proprio nel momento in cui questa recensione viene redatta, la stessa Biontech – come da prassi – dichiara, scrivendolo nero su bianco, alla SEC (ente regolatore del mercato negli Stati Uniti, equivalente della Consob italiana):

“potremmo non essere in grado di dimostrare l’efficacia o la sicurezza sufficienti del nostro vaccino per ottenere l’approvazione normativa permanente negli Stati Uniti, nel Regno Unito, nell’Unione europea o in altri paesi in cui il vaccino è stato approvato”. In altre parole, non è detto che un farmaco approvato in via emergenziale, seppur somministrato a una quantità enorme di persone in tutto il mondo, possa avere le carte in regola per un’approvazione definitiva. “La successiva scoperta di problemi precedentemente non rilevati potrebbe influire negativamente sulla vendita commerciale del prodotto, portare a restrizioni sul prodotto o portare al ritiro del prodotto dal mercato” [1].

Vi è poi il rischio che le agenzie in questione abbiano conflitti di interessi sia rispetto alla politica sia rispetto alle case farmaceutiche. Riguardo alla politica, basti ricordare le pressioni del Presidente degli Stati Uniti per riuscire a disporre dell’obbligatorietà del vaccino entro il 20 settembre 2021 e che – come si legge – condussero alle dimissioni di due degli esponenti FDA più di riguardo nel settore vaccini, Marion Gruber e Philip Krause.

Ma il problema sta ancora più a monte e sottende un legame a doppia mandata con le case farmaceutiche stesse.

Dell’attuale budget di FDA, che è di 5,9 miliardi, quasi la metà è finanziata da tasse che le stesse case farmaceutiche pagano in funzione delle autorizzazioni date ai propri farmaci. Se poi si guardano più specificamente i numeri dei farmaci per gli esseri umani, i finanziamenti privati delle case farmaceutiche arrivano a coprire il 65% del budget di FDA” (p. 64).

L’autore ci ricorda come fino al 1992, l’agenzia venisse finanziata solo con fondi pubblici, cioè con le tasse di tutti i cittadini. In seguito al Prescription Drug User Fee Act, si introdusse il nuovo sistema di finanziamento privato, solo in apparenza neutrale per quanto riguarda il fronte dei condizionamenti. In realtà, attraverso una formula complessa, spiegata da Michael White, esso ha trasformato chi paga le tasse per il servizio in un regolatore del modo in cui quel servizio viene erogato. “Dal punto di vista della negoziazione di regole e parametri, FDA sembra più regolato che regolatore, più controllato che controllore. È ovvio che questo sistema finisca per influire negativamente sull’attività di controllo dei farmaci. Ed è ovvio che si finisca per riscontrare o rinvenire sempre più spesso gli effetti avversi dei farmaci soltanto dopo l’approvazione e la messa in commercio” (p. 69).

Gli elementi di criticità sono anche qui diversi e drammaticamente gravi: gli stessi scienziati che si occupano di autorizzazione detengono infatti l’ultima parola anche sulle questioni di sicurezza post approvazione; premi e riconoscimenti vengono elargiti solo alle squadre che approvano i farmaci, ma non a quelle che rigettano le domande (interrogate e redarguite), per non parlare dei cosiddetti “scambi di poltrona”:

La porta girevole tra FDA e l’industria gira così velocemente che potremmo sfruttarla come fonte di energia rinnovabile. Tra il 2001 e il 2010, secondo uno studio, 26 revisori FDA che avevano lavorato sui farmaci per il cancro e l’ematologia lasciarono l’agenzia; più della metà di essi continuò a lavorare o a fare consulenze per l’industria farmaceutica. Scott Gottlieb, che ha diretto l’agenzia dal 2017 al 2019, è ora nel consiglio di amministrazione di Pfizer” (p. 74).

Ed ancora: proprio il Comitato consultivo indipendente – che dovrebbe avere un ruolo apicale come rappresentante sia degli scienziati non cooptati dalle aziende farmaceutiche, che delle associazioni dei consumatori – è fortemente limitato nelle sua facoltà di vigilanza, trovandosi a presenziare ex-post ed a valutare decisioni già prese altrove, dovendosi accontentare del materiale che ad esso viene concesso. E’ stato paradigmatico il recente caso riguardante il gruppo di scienziati e  accademici di Yale, Harvard, Brown, dell’Università della California e di Los Angeles (UCLA) i quali,  dopo essere ricorsi in giudizio per vedersi concessa la possibilità di visionare le carte inerenti all’approvazione dei vaccini anti covid, ha ottenuto da FDA una tempistica di rilascio dei documenti da spalmare in 55 anni. Mette conto riportare ancora le  considerazioni dell’autore:

“Guardiamo la cosa anche da un altro punto di vista, mettendo a confronto gli interessi tutelati dalle due procedure. Il primo procedimento, quello dell’approvazione del vaccino in 108 giorni, era a tutela della salute del popolo americano, composto di circa 500 milioni di persone, e di riflesso anche della salute di tutti i popoli del mondo. Il secondo procedimento, quello dell’accesso agli atti, è a tutela di Pfizer e di FDA. Dobbiamo dedurne che, quando in gioco ci sono gli interessi di Pfizer e di FDA ci vogliono 55 anni per essere sicuri di non danneggiare i diritti rilevanti. Nel caso delle vite di centinaia di milioni o di miliardi di persone bastano 108 miseri giorni di lavoro con personale, a quanto pare, sottodimensionato. Che la scusa della protezione dei dati sensibili e del sottodimensionamento del personale sia ridicola non le fa sufficiente giustizia. L’unico modo per farle sul serio giustizia è riconoscere l’esistenza di un infinito conflitto di interesse rispetto a quei dati e a Pfizer” (p. 77).

Ma il copione – aggiungiamo noi – pare ripetersi anche per AIFA ed EMA, recentemente interpellate riguardo alla richiesta di un medesimo accesso agli atti: per la prima essi sono “proprietà delle case farmaceutiche” mentre la seconda ha opposto clamorosamente  il ”segreto militare”. Dati coperti dal sigillo industriale, contratti secretati con gli stati, costretti a firmare clausole capestri alla stregua di un Mario Rossi qualunque, mancanza totale di trasparenza restituiscono una sensazione di opacità che con la scienza moderna, aperta e pubblica ha ben poco da spartire.

Così, dopo aver analizzato minuziosamente i pregi ma anche i gravi limiti tecnici di queste agenzie, riguardo a procedure, ambiti di competenza, composizione dei comitati, Di Blasi propone un’ipotesi di riforma su più fronti, (Comitati Consultivo indipendente, compreso) epistemologica ed etica, non solo dal punto di vista procedurale, ma con l’integrazione di esperti di diritto costituzionale e di diritti fondamentali della persona, alcuni rappresentanti delle categorie di cittadini coinvolte, almeno uno statistico, degli epidemiologi, virologi e medici specializzati nelle discipline coinvolte: gravissima è appunto la mancanza di un esperto di statistica indipendente, che mina alla radice la capacità scientifica di valutazione, ed altrettanto grave è che in tutte le riunioni del Comitato l’etica e i diritti non vengono in alcun modo affrontati in modo scientifico nelle discussioni anche se caratterizzano in maniera preponderante le decisioni finali: nessun eticista, o giurista indipendente ha il benché minimo ruolo, malgrado i quesiti etici e giuridici derivanti anche solo da una EUA siano numerosi e pesanti come macigni (pp. 84-85).

La questione si fa ancora più complessa quando si passa all’obiectum: la scienza medica stessa, nei suoi tre livelli cognitivi. Un rapporto maturo con essa esige certamente di poter fare affidamento sulla comunità scientifica nel suo complesso. Un giudice, un osservatore esterno distaccato o un soggetto etico razionale non dovrebbero mai dimenticarsi o sottovalutare lo stato di dubbio e di incertezza che caratterizza un sano dibattito scientifico.

“Questa è la circostanza etica fondamentale di cui prendere atto in questo ambito: una circostanza che non blocca necessariamente una decisione finale ma che le dà i corretti parametri di rischio e di valutazione prudenziale o circostanziata. Visti gli usi demagogici e distorti delle pubblicazioni scientifiche nel dibattito pubblico attuale, dobbiamo sempre ricordarci che la scienza è più di qualche articolo su riviste specializzate, e che non si possono screditare tanti esperti e scienziati richiamandosi retoricamente all’ultimo articolo in vendita nel supermercato delle riviste di settore. L’idea stessa che un articolo tempestivo possa chiudere il dibattito scientifico su un aspetto rilevante dell’epidemia o dei vaccini anti covid è già di per sé così ingenua da fare tenerezza” (pp. 97-98).

In linea col continuo tentativo di auto emendarsi della comunità scientifica, Di Blasi – nella sua analisi – dà voce al grido di allarme che si leva da importanti  testimoni  della scienza medica, ormai da più di un ventennio, a partire da Marta Angell:

“Non è semplicemente più possibile credere a gran parte della ricerca clinica pubblicata o fare affidamento sul giudizio di medici di fiducia o su linee guida autorevoli della medicina. Non traggo piacere da questa conclusione, che ho raggiunto lentamente e con riluttanza nei miei due decenni da editore del The New England Journal of Medicine” [2]

Già qualche anno prima la stessa scienziata aveva spiegato in dettaglio i modi in cui l’industria farmaceutica cooptava il mondo della ricerca e della pratica medica ai propri fini commerciali. Questo libro faceva a sua volta eco ad un articolo del 2001, firmato da una dozzina di direttori di riviste prestigiose di medicina, pubblicato contemporaneamente su: The Lancet, The New England Journal of Medicine, Annals of Internal Medicine, Journal of the American Medical Association, Canadian Medical Association Journal, Ugerskrift for Laeger, New Zealand Medical Journal, Norwegian Medical Association, Nederlands Tijdschrift voor Geneeskunde, Medical Journal of Australia, Western Journal of Medicine. In esso si esprimeva la fortissima preoccupazione per la credibilità e indipendenza della ricerca medica, nel tentativo di delineare alcuni criteri etici e norme di condotta per i ricercatori e le riviste specialistiche [3]. Per non parlare di Richard Smith, direttore del British Medical Journal per ben 13 anni, che definì le riviste mediche ormai come la mera estensione del  braccio commerciale delle aziende farmaceutiche, o di John P. A. Ioannidis – il più grande epidemiologo vivente, il quale – in un clamoroso articolo del 2005 – volle spiegare “il motivo per cui la maggior parte dei risultati delle ricerche pubblicate sono falsi” [4] (pp. 99-100).

Non fa mistero, che quasi tutta la ricerca medica sia finanziata, promossa e veicolata dalle case farmaceutiche, che spendono miliardi ogni anno nella promozione dei loro farmaci: “Per un’azienda farmaceutica, ottenere la pubblicazione di una ricerca in una rivista medica sottoposta a revisione paritaria è come vincere un timbro di approvazione dal suo pubblico più influente. È una convalida automatica ineguagliata da qualsiasi altro mezzo” [5].

Ghostwriting e Pubblication Planning sono tra i maggiori mali che affliggono il settore. Il primo è ben spiegato da Adriane Fugh-Berman: una ricercatrice che ha dedicato diversi anni allo studio del fenomeno. Nel testo l’autore ne riporta uno stralcio paradigmatico:

“Le aziende farmaceutiche inseminano regolarmente la letteratura medica con recensioni o commenti che inquadrano vantaggiosamente un farmaco commercializzato. Tuttavia, alcuni articoli sponsorizzati non menzionano mai il farmaco in questione. Entrambi i tipi di articoli sono generalmente scritti da una medical education company (MEC) che riceve finanziamenti da un’azienda farmaceutica. Medici universitari sono reclutati per firmare questi articoli. La divisione del lavoro per un tale articolo sponsorizzato dall’azienda è raramente in parti uguali; sebbene il firmatario sia invitato ad apportare modifiche, l’obbligo principale del coautore accademico è rivendicare la paternità. L’autore principale del MEC rimane anonimo e qualsiasi istruzione datagli in merito al tono o all’enfasi non viene condivisa con l’autore nominato, che di solito è pagato dal MEC o dall’azienda farmaceutica sponsor. La vera incidenza della paternità o della co-paternità fantasma aziendale è sconosciuta. Aneddoticamente, molti dei miei colleghi che parlano agli incontri nazionali sono stati avvicinati con tali offerte. Gli accordi presi tra le aziende farmaceutiche o i MEC e i medici sono spesso discreti; le trattative avvengono per telefono o tramite e-mail telegrafiche. Le tracce cartacee sono ridotte al minimo; non ci sono fatture, nessun contratto e nessun’indicazione scritta sul lavoro da effettuare. I pagamenti potrebbero non essere riconducibili ai servizi resi o all’azienda farmaceutica sponsor” [6] .

Siamo di fronte ad un problema enorme, venuto alla luce in numerose vicende giudiziarie e del quale si è occupato lo stesso Congresso Degli Stati Uniti, invocando contromisure nel mondo della scienza e dell’università ma anche al National Institute of Health (p. 105). 

Sulla pianificazione delle pubblicazioni Di Blasi cita direttamente N. Singer:

“L’espressione “descrive il processo finemente calibrato mediante il quale studi clinici, commenti e altri articoli a sostegno dell’efficacia di particolari prodotti sono scritti e immessi nella letteratura biomedica […] l’industria utilizza il publication planning per influenzare l’opinione pubblica e medica attraverso la mediazione delle riviste mediche” [7].

Non ci dilunghiamo sulle due fasi di questo processo, che parte ben prima dell’approvazione e dell’eventuale successo del farmaco. Fanno da corollario l’organizzazione di conferenze mediche di aggiornamento professionale, i Mec specializzati nella scrittura di articoli, la lotta alla concorrenza con l’organizzazione di convegni e la scrittura di articoli sui dati negativi di specifiche terapie alternative, oppure l’elusione dell‘off-label. L’autore cita diversi casi concreti (storici e giudiziari) che ben rappresentano anche ciò che è successo negli ultimi due anni riguardo alle terapie contro il covid, alternative (e non).

Vi è un chiaro problema sistemico nella scienza medica a trazione industriale, spinta da ingentissimi interessi economici, nella quale  il distacco scientifico, l’onestà, la curiosità intellettuale e la trasparenza – come sue prerogative imprescindibili – si trovano sovente ad essere compromesse. Non è possibile lasciare a singoli ricercatori e scienziati l’onere ed il coraggio (quando lo si trova) di affrancarsi da determinate logiche mercantilistiche.

“Le case farmaceutiche vivono e si nutrono di una visione distorta dell’etica in netto contrasto con i princìpi di libertà costituzionali di qualsiasi stato civile, ed hanno un potere economico tale da alterare il corso e i risultati della scienza medica (in tutte le sue branche e discipline collegate) e la percezione che ne hanno i professionisti del settore. Questo problema richiede una soluzione politica a tanti livelli” (p. 122).

In attesa di una riforma strutturale a livello internazionale (sulla quale Di Blasi avanza ipotesi di grande buon senso) è necessario applicare dunque criteri prudenziali, sia nelle scelte dei singoli, ma soprattutto in quelle dei decisori pubblici. Molta attenzione va prestata agli studi troppo tempestivi, agli elementi auto-confutatori, alla contraddizione tra teoria e pratica, al successo mediatico immediato, alle critiche di farmaci non protetti e a basso costo (spesso mosse dagli stessi produttori, al lancio di nuovi preparati) tenendo sempre conto dell’opinione contraria di esperti autorevoli e indipendenti.

Urge una ristrutturazione del profilo finanziario del sistema, delle autorità di controllo con una particolare attenzione ai conflitti d’interesse: si rende necessario un coordinamento internazionale che contempli un sistema punitivo proporzionato alla gravità dei danni potenzialmente causabili:

“Se un’azienda guadagna miliardi da un farmaco a fronte di un rischio giudiziario di pochi milioni, non avrà alcun interesse economico a cambiare le proprie prassi anche se verrà condannata in qualche processo. Dovrà soltanto inserire pochi milioni di condanne giudiziarie nei costi di produzione dei farmaci. Se invece le condanne fossero rilevanti, allora dovrà cambiare il suo modus operandi per evitarle” (p. 124).

E poi c’è l’enorme divario tra la ricerca indipendente e quella  che trova nel business la sua spinta propulsiva (alla quale va riconosciuto ovviamente il merito  di porre a disposizione ingenti quantità di fondi e tecnologie d’avanguardia). Va rivalutato altresì il ruolo del finanziamento pubblico. Si rende necessario ripartire dall’università e dai centri di ricerca coinvolgendo anche quegli ambiti esterni alle scienze mediche e biologiche. Sarebbe troppo lungo – anche qui – riportare tutto ciò che l’autore esprime in modo articolato.

Il “processo” volge poi la sua attenzione anche alle autorità pubbliche, politiche e governative (OMS in primis) ed ai mass-media, per vagliarne – anche qui –  tenuta e credibilità.

Riguardo all’Organizzazione Mondiale della Sanità vi sono già diversi report di commissioni indipendenti che possono essere ritenute una buona camera di decompressione nell’introdurci ad una valutazione più realistica e disincantata della realtà. Tra questi “COVID-19: Make it the Last Pandemic” [8], rapporto che prevede due azioni da intraprendere entro maggio 2022, riguardanti l’indipendenza finanziaria dell’Organizzazione, e relative quote degli stati membri che coprano almeno i 2/3 del budget (il maggior finanziatore è tuttora Bill Gates). Si auspica anche il rafforzamento dell’autorità e dell’indipendenza del direttore generale e dei direttori regionali: il primo è succube dei ministri dei singoli stati, che ne minano autorità e indipendenza.

Di Blasi ricostruisce le vicissitudini del rapporto Zambon e degli intrecci che ad esso si legano.

Segue la cronistoria e l’analisi in punta di diritto dell’istituzione del green pass europeo e della sua declinazione italiana, come strumento totalizzante nella gestione dell’emergenza pandemica e per l’incentivazione (eufemismo) della campagna vaccinale, col seguito d’inesattezze, abusi e palesi menzogne ad esso collegate. Anche qui invitiamo il lettore ad approfondire nel testo ciò che non è possibile riportare in queste righe. E’ evidente come un’infrastruttura su tecnologia blockchain così pervasiva rischi di condurci ad un sistema di cittadinanza a punti e crediti sociali che l’autore – in modo molto calzante – associa a ciò che da tempo si sperimenta nel sistema bancario: quel che importa è solo la sanzione automatica atta ad uniformare gli utenti a certi standard, non necessariamente di politica sanitaria tout-court. Come nel sistema creditizio, la sola segnalazione del pignoramento nella piattaforma digitale bancaria è sufficiente per bloccare  – senza alcuna responsabilità accertata dal giudice – le possibilità di accedere a linee di credito, causando così la perdita della propria libertà finanziaria e professionale, seppur in mancanza di una sentenza passata in giudicato (che potrebbe anche assolvere il malcapitato). Attraverso il GP – aggiungiamo noi – si arriva ad intaccare alle radici il concetto stesso di “personalità giuridica”, così come si è sviluppato nel pensiero e nella prassi legislativa occidentale. Tale personalità, nel permettere ed esigere piena facoltà di esercitare i propri diritti e doveri sociali, tende a non essere  più innata, acquisita una volta per tutte dalla nascita, ma viene legata ad una concessione “diversamente negoziabile” oppure arbitrariamente imposta – associata all’identità digitale, capace di generare cittadini di serie A e di serie B, parametrati ai criteri  che il dispositivo stesso impone come necessari per “fruire” di determinati diritti.

Altro capitolo è dedicato alla nuova Babilonia, la “grande prostituta”: la stampa mass mediatica, telegiornali, talk show, ma anche quelle piazze virtuali pubbliche a capitale privato, quali sono i social network. L’infodemia esasperata, il clima da caccia alle streghe, il muro contro muro, la censura, la criminalizzazione del dissenso, la polarizzazione dell’informazione “mainstream” in sinergia con l’arroganza e l’arbitrio della politica e della “scienza di stato”  stanno scrivendo una delle pagine più vergognose della recente storia italiana. Ampio spazio è ovviamente dedicato alla ricostruzione dei fatti strettamente legati ai portuali di Trieste (ai quali è tra l’altro dedicato il libro): anche i semplici perplessi sul green pass hanno subìto la medesima scomunica riservata al  nemico interno numero uno, rappresentato dal fantomatico no-vax, il quale tende sempre più ad avere, nelle invettive mass mediatiche, mera parvenza sub-umana.

In tutto questo marasma non sono certamente mancati scienziati che coraggiosamente hanno espresso posizioni non integraliste e di buon senso, consapevoli della cautela con la quale vanno affrontate le questioni di salute pubblica, mantenendo  un atteggiamente genuinamente scientifico, mai dogmatico o di mal celato paternalismo. Tra questi Peter Doshi per il BMJ o Gunter Krampf su the Lancet [9] Ioannidis e lo stesso Malone, ma potremmo citare – seguendo Di Blasi – anche centri di ricerca come l’ Harvard Center for Population and Development Studies [10]: numerosi ed autorevoli scienziati hanno posto in evidenza come molte delle politiche discriminatorie e fortemente limitanti delle libertà personali siano prive di una fondata giustificazione scientifica (ammesso e non concesso un tale debordamento delle scienze empiriche a fonti dalle quali possano promanare, senza alcuna mediazione,  scelte etiche o giuridiche) . Da non sottovalutare anche i diversi “warning” sugli effetti avversi, come quello di Steven R Gundry [11] – citato sempre nel testo – il quale ha messo in guardia sul rischio che i vaccini mRNA potessero aumentare drammaticamente l’infiammazione sull’endotelio e l’infiltrazione di cellule T del muscolo cardiaco:  “le osservazioni di aumento della trombosi, cardiomiopatia e altri eventi vascolari dopo la vaccinazione” sono ormai supportati da una sempre più robusta letteratura che non può non essere tenuta in debita e doverosa considerazione – aggiungiamo noi – anche e soprattutto dopo le recentissime pubblicazioni su Nature e The Lancet [12]. Tutti costoro hanno il medesimo diritto di accedere all’aula del tribunale: le loro testimonianze – secondo la scienza dei testimoni – non possono lasciare indifferente il giudice del foro competente.

Potremmo citare anche luminari italiani di chiara fama, come ad esempio l’epidemiologa Sara Gandini, la quale fin da subito si è spesa in importanti studi e ricerche rivelatesi decisive nel chiarire come le scuole non fossero quei luoghi di pericolosa propagazione del virus, tanto paventata nella vulgata chiusurista. Ne è sorta spontanea la coraggiosa rivendicazione del diritto dei bambini al godimento di una dignitosa didattica in presenza, la richiesta del ripristino di quella socialità negata che ha minato la salute mentale di tantissimi giovani. In una meta-analisi pubblicata nei giorni in cui scriviamo questa recensione, l’epidemiologa col suo staff di collaboratori ha stabilito che i contagi si confermano infatti  rari ed i giovani s’infettano significativamente meno (40% in meno) rispetto agli adulti (70%) [13] .  La salute personale e la salute di un paese richiamano concetti ben più ampi del solo fattore teorico di contagio, mentre la politica a “rischio zero” si fa sempre più anacronistica e deleteria per entrambe. Scienziati e studiosi – come appunto la Gandini – hanno spesso pagato a caro prezzo la chiara opposizione ad una gestione paternalistica ed autoritaria dell’emergenza; potremmo ricordare tra questi – sempre in Italia – il prof. Paolo Puccetti, Giovanni Frajese, Paolo Bellavite, Alberto Donzelli, Marco Cosentino, Eugenio Serravalle, Vincenzo Cuteri: questi ultimi tra l’altro freschi di pubblicazione – assieme al Di Blasi –  col recentissimo volume Pandemia: invito al confronto contenente gli atti del convegno di Roma tenutosi il  gennaio scorso.

            Il suicidio dei phronimoi

Ci accingiamo infine ad introdurre la parte conclusiva del libro, che riguarda appunto il phronimos, il saggio, l’uomo prudente.

“Phronêsis è il termine greco che generalmente traduciamo con prudenza o saggezza pratica, e il phronimos è l’uomo che possiede la virtù della phronêsis. Alla phronêsis corrisponde, nel pensiero teoretico, la virtù intellettuale della sophia o sapienza” (p.213).

Egli  – nell’epistemologia delle virtù – è appunto, secondo l’autore,  il grande assente, il malato terminale tra i cosiddetti testimoni su vaccini e pandemia, sia in termini classici di virtù etiche che dianoetiche. In verità – aggiungiamo noi – vi è estrema penuria anche tra una certa pletora di giudici e decisori pubblici, soprattutto tra coloro i quali pare abbiano ingaggiato una vera e propria battaglia contro un autentico principio di precauzione (falsamente millantato col perseguimento del suddetto – fantomatico – rischio zero).

La prudentia – come spiega Di Blasi – è proprio quella virtuosa capacità di mediare tra l’universale della norma e il particolare della vita morale, come d’altronde l’equità assomiglia ad una riga di morbido piombo che adatta la linea diritta della legge alle asperità del terreno, solo apparentemente in contraddizione. Ad esempio:

“Nell’antico diritto romano, i giudici (giusnaturalisti) dell’epoca si resero conto, ad esempio, che la norma che imponeva il rispetto del contratto era ingiusta nel caso in cui il consenso di una delle parti fosse stato estorto con violenza o inganno (metus e dolus) e crearono un’eccezione processuale all’applicazione di quella norma. È proprio il rispetto del contratto, cioè della formazione della volontà delle parti, che impone di non fare rispettare un contratto il cui consenso sia stato estorto con la violenza o con l’inganno” (…). Epistemologicamente, l’etica sta più nella sentenza che nella legge, più nel giudizio della coscienza che nelle norme universali usate nel ragionamento previo alla scelta. Posta l’irriducibilità della scelta concreta alle regole universali, Aristotele dirà che la regola prossima dell’azione morale è il phronimos, l’uomo le cui virtù morali e la cui prudenza gli fanno individuare l’azione giusta o buona da compiere: l’uomo il cui esempio fa a noi comprendere il modo di comportarsi corretto nelle diverse circostanze. È osservando il phronimos che noi capiamo come ci si comporta, non semplicemente studiando qualche regola o principio astratto. Il phronimos è maestro sia di virtù etiche che di virtù dianoetiche (…).

Qualunque scienza inizia con l’osservazione dei suoi dati. Ma i dati di partenza dell’etica sono propriamente le azioni morali delle persone buone (…) . Per capire che cosa è l’amore bisogna osservare chi ama sul serio. Per capire che cosa è davvero giusto bisogna osservare quel che fanno le persone giuste. È dall’agire del phronimos che capiamo l’etica come scienza pratica perché l’etica vive nel concreto dell’esperienza morale, non nell’astratto delle regole e dei princìpi teorici (pp. 221-223).

Declinando questa figura ed inserendola nel contesto pandemico:

 “Il phronimos, come fa un bravo giudice con i periti che sfilano nell’aula del processo, deve essere in grado di comprendere i profili tecnici e scientifici e valutare le varie perizie, ma alla fine ha bisogno di osservare tutte le questioni specifiche dall’alto. Il punto di vista epidemiologico su una malattia, ad esempio, potrebbe essere meno importante, ai fini di una certa decisione, del punto di vista economico o di quello emergenziale che riguarda un fattore estraneo alla malattia in questione. La portata teoretica della sapienza è coestensiva alla portata etica della prudenza. L’esagerazione di un profilo scientifico particolare è sia segno di poca sapienza che di poca prudenza e può indicare subito che una persona non è il nostro phronimos ideale”. (p. 230).

Segue un excursus sull’architettura delle virtù, dal quale si può evincere come, per diversi aspetti, il dibattito mondiale sulla pandemia ed i vaccini anti covid sia stato pervaso dal sovvertimento dell’etica classica e del buon senso. Si è caratterizzato per l’obliterazione della phronesis a vantaggio della fede cieca in entità astratte poco definite e in soggetti senza attendibilità etica o teoretica: la scienza intesa come concetto monolitico, quasi disincarnato al quale bisogna “affidarsi” senza tentennamenti. Come abbiamo sottolineato, certamente non sono mancate voci dissonanti che hanno cercato di “tenere la complessità”, difendere la polisemia, la pluralità degli approcci ed il pluralismo, segnando i limiti della conoscenza scientifica, sempre in fieri, mettendo in guardia sugli elementi inquinanti il discorso pubblico, sul rischio di una strumentalizzazione per fini politici o di eccessi tecnocratici non compatibili con la libertà e la dignità. Ma è purtroppo vero che:

“molti, troppi, phronimoi non sono stati uccisi ma si sono suicidati. Il problema principale di oggi non sta nell’avere idee etiche diverse ma nell’ipocrisia. L’etica è diventata per molti un gioco teoretico o un’arma retorica. Molti intellettuali non vivono ciò che pubblicamente proclamano. Discriminano parlando di non discriminare. Chiedono di essere rispettati mentre insultano. I veri intellettuali disprezzano l’ipocrisia e non è strano che, sul piano dell’onestà, si ritrovino dalla stessa parte di chiunque dica cose apprezzabili e sensate, indipendentemente dalle convenienze politiche, demagogiche o strategiche di alcune alleanze. Il vero intellettuale è alleato di chi dice, volta per volta, cose intelligenti o interessanti e disprezza sempre l’illogicità e l’ipocrisia . Gli accademici, gli esperti, i preti e gli intellettuali, perfino i giornalisti, hanno un vantaggio tecnico sul resto della popolazione: un vantaggio che è, al tempo stesso, un onore e una responsabilità. Hanno un titolo pubblico per esser considerati, almeno in via pregiudiziale (iuris tantum, direbbero i giuristi, o fino a prova contraria), come phronimoi, come punti di riferimento, almeno in alcuni ambiti della conoscenza e dell’agire. Per mantenere fede a questo onore, tuttavia, devono comportarsi sempre come tali: come fanno le persone sapienti e sagge. Invece, abbiamo assistito ad un suicidio di massa di proporzioni bibliche” (pp. 237-38).

La lista  lunghissima di testi passata al setaccio in questo volume e  l’enucleazione dei problemi sistemici che affliggono alcune istituzioni cardine, hanno restituito un quadro impietoso di questo suicidio collettivo: conflitti d’interesse, negligenza, arroganza, presunzione, pusillanimità, ambizione, vanagloria. “Troppe autorità politiche, scientifiche o semplicemente massmediatiche hanno fatto del loro meglio per generare sfiducia e perdere di credibilità”. Pochi di essi – in un processo normale – potrebbero vantare il minimo sindacale di credibilità di fronte ad un giudice. E di questo il decisore pubblico, come il singolo cittadino devono tener conto nelle proprie scelte:

“Noi viviamo soprattutto – a tanti livelli e con diverse gradazioni – di atti di fiducia nelle verità che ci raccontano gli altri. Questo libro ci aiuta a prendere coscienza di ciò e ad imparare a gestire in modo razionale questa forma di conoscenza. Pensare a noi stessi come giudici in un’aula di tribunale in cui soppesare il valore delle testimonianze che ci vengono offerte di queste verità è un modo ottimo ed epistemologicamente corretto per fare ciò. La scienza del diritto ci aiuta, poi, a valutare l’attendibilità dei testi sia rispetto al tipo di verità di volta in volta rilevante sia rispetto alla personalità e condotta morale del teste” .Ultimamente, dobbiamo fidarci di singole persone, anche laddove il rapporto con esse è meno diretto, o è mediato da strutture istituzionali opache di cui non è facile capire le sinuosità. Perfino il riferimento alla scienza, come abbiamo visto è epistemologicamente sbagliato. Ogni termine che dà l’impressione di dover credere ad una qualche entità astratta sovrumana è irreale e diventa un facile strumento di potere demagogico nelle mani di chi gestisce le comunicazioni pubbliche. Una delle cose principali che dobbiamo imparare a fare sempre meglio è smascherare le persone vere, in carne ed ossa, che si celano dietro a presunte verità, e di tali persone interrogarci scientificamente sulla competenza e attendibilità. Una volta smascherate le persone reali, e una volta utilizzata appieno la scienza giuridica dei testimoni, ci renderemo anche conto dell’importanza dell’etica del phronimos” (p. 257).

Il libro si conclude con un segno di speranza proprio nell’aver fornito e reso fruibili i criteri per un  corretto discernimento – ragionevole e prudenziale – in ambito etico e giuridico, dimostrandone altresì l’urgenza e l’importanza. Criteri che i decisori politici dovrebbero per primi applicare nel perseguimento del bene comune. Il prof. Di Blasi ci ha posto di fronte al dubbio fondato riguardo al come, molte tra le più draconiane e illiberali misure di contrasto alla pandemia, siano state per lo più giustificate sull’amplificazione o l’elevazione all’ennesima potenza di mere “testimonianze” de relato, passate per verità solo apparentemente incontrovertibili o incontestabili, attraverso un incessante martellamento, la loro ridondante ripetizione ad libitum, grazie ad una massiccia colonizzazione di ogni ambito del dibattito scientifico e pubblico, ed una sovente parallela delegittimazione di qualsiasi interlocutore o teste non allineato. Si fa concreto il rischio che, attraverso la “normalizzazione” di una perenne situazione emergenziale, supportata da comitati mai definitivamente sciolti e da misure “straordinarie”  mai totalmente revocate, si passi inesorabilmente da uno “stato d’emergenza” ad una vera e propria emergenza dello stato (democratico).

Qualche critico potrebbe infine aver la tentazione di volgere un’accusa al nostro eticista e filosofo del diritto, ritenendolo reo di aver intrapreso una deplorevole opera di delegittimazione della ricerca scientifica tout-court, assieme alle istituzioni che ne tutelano l’autorevolezza:  sarebbe un grosso errore. Crediamo d’interpretare il genuino intento dell’autore, ravvisandone invece la volontà di “depressurizzare” il discorso pubblico, drammaticamente compresso su posizioni rigide e dogmatiche, frutto di una concezione irrealistica della scienza e dei suoi testimoni: La morte del Phronimos è un’accorata esortazione alla corretta pratica del ricondurre le vitali decisioni di salute pubblica nell’ordine dell’umana fallibilità, di una conoscenza “fiduciaria” che esige prudenza e tutela delle libertà e dei diritti fondamentali, esortando dunque ad un approccio meno paternalistico e più rispettoso del pluralismo, sia nel campo della ricerca che delle scelte etiche del singolo e della collettività, allo scopo di riportare al centro del consesso civile quella phronesis della quale tutti sentiamo la mancanza.


[1] https://investors.biontech.de/node/11931/html

[2] Cfr., M. Angell, “Drug Companies & Doctors: A Story of Corruption”, cit.

[3] Cfr., F. Davidoff, C. D. DeAngelis, J. M. Drazen, J. Hoey, L. Højgaard, R. Horton, S. Kotzin, M. G. Nicholls, M. Nylenna, A. John. P.M. Overbeke, H. C. Sox, M. B. Van Der Weyden, M. S. Wilkes, “Sponsorship, authorship, and accountability”, 15/09/2001, URL: https://www.thelancet.com/journals/lancet/article/PIIS0140- 6736(01)06035-4/fulltext#%20. Cfr., anche, C. De Angelis, J. M. Drazen, F.A. Frizelle, C. Haug, J. Hoey, et al., “Clinical trial registration: A statement from the International Committee of Medical Journal Editors”, The Lancet, 2004, 364: 911–912.

[4] Cfr., John P. A. Ioannidis, “Why Most Published Research Findings Are False”, PLoS Med 2(8), e124, 30/08/2005, https://doi.org/10.1371/journal.pmed.0020124.

[5] Cfr., W. Balter, M. Skelton, P.O. Safir, “The P’s and Q’s of publication planning”, Pharm Executive, May 2003, 130–6.

[6] Cfr. A. Fugh-Berman, “The corporate coauthor”, Journal of general internal medicine, 2005, 20(6), 546–548, URL: https://doi.org/10.1111/j.1525-1497.2005.05857.x

[7] Cfr., N. Singer, “Report urges more curbs on medical ghostwriting”, New York Times, 24/06/2010, URL: https://www.nytimes.com/2010/06/25/health/25ghost.html?_r=2&sc p=7&sq=Natasha%20Sing%20er&st=cse.

[8] OMS, The Independent Panel for Pandemic Preparedness & Response, “COVID-19: Make it the Last Pandemic”, 02/05/2021, URL: https://theindependentpanel.org/wpcontent/uploads/2021/05/COVID-19-Make-it-the-LastPandemic_final.pdf. Cfr., anche, S. Baldolini, “Intervista a F. Zambon: “Una fantastica randellata all’Oms”, Zambon approva il rapporto indipendente sulla pandemia”, Huffpost, 02/05/2021, URL: https://www.huffingtonpost.it/entry/zambon-approva-il-rapportoindipendente-sulla-pandemia-una-fantastica-randellataalloms_it_609bcd50e4b03e1dd383ce57

[9] Cfr., G. Kampf, “The epidemiological relevance of the COVID-19-

vaccinated population is increasing”, The Lancet Regional Health – Europe, Volume 11, December 2021, 100272, URL:

https://doi.org/10.1016/j.lanepe.2021.100272.

[10] Cfr., S. V. Subramanian, & A. Kumar, “Increases in COVID-19 are

unrelated to levels of vaccination across 68 countries and 2947 counties

in the United States”, European journal of epidemiology, 1–4,

30/09/2021, URL: https://doi.org/10.1007/s10654-021-00808-7.

Cfr., anche, R. Malone, P. Navarro, “Vaccine inventor questions mandatory shot push, Biden’s Covid-19 strategy”, The Washington Times,

05/08/2021, URL :

https://www.washingtontimes.com/news/2021/aug/5/biden-teamsmisguided-and-deadly-covid-19-vaccine-/: «The Biden administration’s

strategy to universally vaccinate in the middle of the pandemic is bad

science and badly needs a reboot. This strategy will likely prolong the most dangerous phase of the worst pandemic since 1918 and almost assuredly cause more harm than good – even as it undermines faith in the entire public health system».

[11] S. R. Gundry, “Mrna COVID Vaccines Dramatically Increase Endothelial Inflammatory Markers and ACS Risk as Measured by the PULS Cardiac Test: a Warning”, Originally published 8 Nov 2021,

Circulation, 2021, 144:A10712, URL https://www.ahajournals.org/doi/10.1161/circ.144.suppl_1.10712?fbclid=IwAR3p6CQde5-

BnAQd73Vs08h3zgXBNKOWHDnwkCergi1Z8U6-KTGbsoIQj2U.

[12] Cfr., https://www.nature.com/articles/s41598-022-10928-z

[13]Cfr.,https://www.mdpi.com/1660-4601/19/9/5384?fbclid=IwAR2Pgb0-v8TCP0a3l6vi7o2hkLU8I7n1PtSw7co4zkOKOOamil4CnnkE3TQ

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